“Essere coraggiosi è essere aggressivi, ed è da vili il ritirarsi” si legge su una stele voluta dal faraone egiziano Senusret III milleottocento anni prima di Cristo. Dissentiamo, e proviamo ad argomentare perchè in questo numero di Marea.
Coraggio: vocabolo maschile per eccellenza, in quasi tutte le culture è attribuito a chi è forte, ha disposizione ‘virile’ verso la vita, sinonimo di gesta eroiche ed estreme. Quello che abbiamo scelto di proporre è un’altra versione di coraggio, quello più spesso incarnato dalle donne piuttosto che dagli uomini, quello meno evidente ed esterno, quello quotidiano di scelte meno eclatanti che non arrivano spesso alle cronache e sui media, ma che come la goccia scavano piano la roccia, e il segno resta indelebile e passa di generazione in generazione, diventa cultura e prassi condivisa.
Ecco quindi il coraggio di restare nel proprio paese anche a costo della vita, quello di non scegliere la via più ovvia, quello di ‘smantellare la casa del padrone non adoperando gli attrezzi del padrone.”
Alla fine della Lisistrata di Aristofane un ambasciatore ateniese, dopo aver deciso la pace, dice: ”Si badi a non sbagliare ancora in futuro”. Il destino di Lisistrata era già nel suo nome: “la donna che scioglie gli eserciti”, la donna che sconfisse la guerra del Peloponneso senza mai impugnare un’arma.
Lei ebbe il coraggio creativo di unire le donne nello sciopero del talamo: niente sesso se i due eserciti non avessero smesso la guerra. Ed eccoci qua, dopo quasi duemilacinquecento anni, a sbagliare ancora, non solo sulla guerra e la pace, anche perchè continuiamo a insegnare sin dall’asilo che il coraggio è forza e violenza, mentre chi ha coraggio ha senso del limite, attenzione e cura verso la vita, le relazioni e le sue forme, che sono l’unico senso dello stare al mondo.
Le storie che qui raccontiamo sul coraggio invisibile ma tenace e reale delle donne, singole e insieme, possono costituire le basi per costruire un altro genere di forza, visione e pratica del coraggio.
Buona lettura
