NUMERO 3 2017 LEGGI UN ARTICOLO

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LADY OSCAR

di Annalisa Corrado*

Sono nata l’8 settembre del 1973. Una data “pesante” per molti motivi, per lo più immediatamente evidenti.
30 anni esatti (solo 30!) dall’armistizio tra l’Italia e le forze alleate anglo-americane, nel corso della seconda guerra mondiale; solo un pugno di giorni prima del golpe militare in Cile, che diede inizio alla sanguinosa dittatura di Pinochet; l’anno di quella che viene considerata la prima, tremenda, crisi del petrolio, che mise l’Occidente di fronte alla finitezza e inadeguatezza del proprio modello di sviluppo, che fino a quel momento appariva invincibile e sfavillante; l’anno della pubblicazione di un libro simbolo di un’epoca e di una lotta mai abbastanza vinta, scritto da Elena Gianini Belotti, “Dalla parte delle bambine”.

Sono nata l’8 settembre 1973 ed oggi posso usare questi eventi per definire la persona che, lentamente, sono diventata:  ecologista (per passione, per attivismo e per professione), femminista (per necessità, con strumenti magari un po’ rudimentali ma ben radicati), antifascista (comprendendo nel termine il rifiuto di ogni regime totalitarista e di ogni follia suprematista).

Aggiungerei infine, tanto per utilizzare termini cari al dibattito pubblico del momento, gufa, “buonista”, e del tutto incapace di individuare un “casa nostra” e “casa loro” in virtù del quale gerarchizzare i diritti degli esseri umani o, meglio ancora, degli esseri viventi.

Sono cresciuta fiera del mio essere considerata “un maschiaccio”, inizialmente intrappolata in una sorta di “complesso di Lady Oscar” che, volendo usare una estrema sintesi poco romantica, altri non era che una donna che, un po’ per necessità un po’ per aspettative terze, aveva deciso di vestire i panni del maschio pur di raggiungere obiettivi professionali di rilievo e pur di sviluppare le proprie attitudini e capacità.

Mi distinguevo, cioè, fin da allora, quasi con orgoglio da ogni stereotipo femminile (ad esempio preferendo la maschera di Zorro a quella della principessa; scegliendo sempre i pantaloni e snobbando gli scomodissimi vestiti aggraziati; adorando passare il tempo dedicandomi alle costruzioni, alla lotta, allo smontaggio e rimontaggio degli oggetti domestici vagamente tecnologici, piuttosto che alle insopportabili barbie), più o meno serenamente convinta che i miei desideri, le mie abilità e le mie attitudini fossero effettivamente “da maschio” e che ci fosse persino da andarne fiere. Al punto che per maschio mi hanno sistematicamente scambiata, almeno fino ai 12 anni suonati.

Ancora non mi sfiorava l’idea che fossero gli stereotipi ad essere odiosi, tarpanti e profondamente sbagliati e che, in quanto bambina, avrei avuto tutto il diritto di sognare (anche) di combattere i cattivi con la spada, con la maschera e con molto coraggio, restando femmina, però.

Da Zorro all’ingegneria meccanica, complici un’insanabile irrequietezza (che ancora mi fa sempre compagnia), una famiglia disposta a sostenermi anche lungo strade non esattamente rassicuranti, una nonna prima partigiana e poi giornalista e capitana di azienda, alla quale nessuno avrebbe osato dire che “una donna non avrebbe potuto…” il passo è stato breve, almeno a vederlo da qui.

Proprio nelle aule universitarie stracolme di maschi, ancora sostanzialmente con la rassicurante divisa di Lady Oscar addosso, è arrivata la folgorazione: l’incontro con l’oggetto che avrebbe catturato buona parte delle mie energie da lì in poi. L’energia.

L’energia del petrolio, del carbone del gas, l’energia nucleare, quella che disegna i rapporti di forze e la geopolitica mondiale, che provoca e alimenta interminabili e sanguinosissimi confitti, che rende irrespirabile l’aria e malsane le acque, che avvelena il suolo, che sposta gli impatti in Paesi o luoghi che qualcuno ha deciso siano “sacrificabili”, che acuisce ingiustizia e diseguaglianze, che mette a rischio la stessa sopravvivenza del genere umano, perché in grado di compromettere l’abitabilità del pianeta Terra.

La stessa energia che, invece, se la generi utilizzando tecnologie pulite e sole, vento, acqua, calore della Terra, biomassa, maree, se la usi con efficienza ed intelligenza, abbandonando il centralismo a favore della distribuzione, ha il potere di cambiare tutte le carte in tavola, perché nasconde in sé la chiave per ridefinire completamente i connotati alla società, all’economia, agli stili di vita, all’agricoltura, ai territori, alle nostre città.

Per l’energia abbiamo dichiarato troppe guerre, contro altri popoli, contro l’ecosistema, in ultima istanza, contro noi stessi… E, in questo senso, lavorare per sovvertire completamente questo modello poteva diventare realmente il mio modo di “fare pace con la Terra”.

L’energia ha fatto irruzione nella mia vita, insomma, e non ci siamo più lasciate.

Seppur supportata da questa appassionante convinzione, mi fu presto chiaro che essere una giovane ingegnerA meccanica all’inizio del nuovo millennio (allora non mi sarebbe mai saltato in mente di definirmi così… Ancora non avevo né intuito, né compreso uno dei poteri che hanno le parole ed il linguaggio, ossia quello di evocare la società che vogliamo costruire e fare posto alle immagini che verranno) non era proprio un fatto banalissimo.

Ci mettevo di mio un cognome un po’ “ambiguo” (che è anche un nome proprio maschile, seppur non diffusissimo) e delle dimensioni non esattamente classiche per il mondo femminile (1,83 m di altezza, per un sonoro 42 e 1/2 di piede), che avevano fatto dell’unisex uno dei miei punti di riferimento.

L’incontro/impatto con un mondo tutt’altro che disponibile a farmi togliere la rassicurante divisa di Lady Oscar è arrivato agli albori dell’esercizio della professione.

Ai colleghi maschi l’appellativo “ingegnere” era conferito automaticamente, persino quando non era nemmeno vagamente reale, con naturalezza. Per noi c’erano a disposizione i signora o i signorina, al limite dello sforzo arrivava qualche dottoressa… Poi c’erano le chiamate dall’esterno dell’ufficio che ti scambiavano per la segretaria o l’assistente di qualcuno prima di capire che eri tu, proprio tu (femmina?!), il punto di caduta della loro ricerca telefonica; oppure quei momenti un po’ frustranti in cui ti dovevi qualificare con titolo di studio e ruolo ricoperto prima che qualcuno (anche donne) ti desse ascolto o ti passasse la persona giusta.

Un giorno, ricevetti una email che iniziava con “caro ing. Annalisa…” e mi fu chiaro quanto per moltissimi potesse essere più semplice pensare che qualcuno si potesse chiamare Annalisa di cognome, piuttosto di essere incappati in “un’ingegnereMeccanico Femmina”.

L’aneddoto più bello di tutti, però, resta quello che ha regalato il titolo a questa breve sequenza di pensieri e riflessioni: Dovevo tenere una lezione su efficienza energetica e fonti rinnovabili all’interno di un corso di aggiornamento per docenti delle scuole secondarie. In una sala moto elegante e tecnologica, la coordinatrice del corso mi accoglie cordiale, scambia con me due chiacchiere sulla lezione e, pragmaticamente, dice al tecnico di sala “accompagni l’ingegnere alla sua postazione per collegare il pc”. Mi incammino; sento che non mi sta seguendo, né tanto meno accompagnando, anima viva (del resto i maschi presenti erano rimasti tutti fermi attorno alla coordinatrice). Percepisco imbarazzo e gesti alle mie spalle, finché emerge chiaramente un sussurro chiarificatore “l’ingegnere è la signora!”.

Insomma, mentre la divisa cominciava decisamente ad andarmi stretta (a volte anche con risvolti esilaranti), iniziavo a sperimentare un crescente disagio per le situazioni in cui un rassicurante paternalismo si mischiava con una certa malizia sessista, dando luogo ad un ambiente un po’ ambiguo e molliccio, in cui dalle poche femmine presenti, specie se giovani, oltre ad una continua dimostrazione delle proprie capacità e dei meriti per i quali si ricopriva questa o quella posizione di responsabilità, ci si aspettava che imparassero presto a fare buon viso a cattivo gioco, a ridere a battute di pessimo gusto, a non rispondere troppo per le rime, per non correre il rischio di sembrare intransigenti, bacchettone o “acide” (avete mai sentito questo termine legato al mondo maschile? Interessante, no?).

Proprio in quel periodo Elena Gianini Belotti, attraverso il suo scritto “Dalla parte delle bambine”, mi venne in soccorso con la sua chiave di lettura della realtà, tanto lucida e illuminante, quanto spietata e inquietante, puntando un faro (che non si è mai più spento da allora) sulla zavorra che ci portiamo dietro con gli stereotipi di genere, tanto come singoli, quanto come società.

Non si può non tenerne conto mentre si agisce ogni giorno, senza mai poter dare per acquisito quel complicato equilibrio dinamico tra tutte le dimensioni che, come moltitudini di altre donne non riconducibili a nessuno degli stereotipi femminili disponibili, vivo: dalle relazioni familiari, alla professione, dalle passioni all’attivismo civico e politico, passando per quella pazzesca e spettacolare rivoluzione copernicana che è la maternità.

Diffido ormai talmente tanto dal ricorso agli stereotipi, che faccio addirittura fatica a rispondere ad alcune delle preziose sollecitazioni a cui questo scritto vorrebbe o dovrebbe rispondere; ad esempio a quella relativa ad eventuali quid che l’essere donna potrebbe conferire nell’attivismo politico ed ecologista.

Senza voler essere minimamente manichea, mi concentro quindi su alcuni elementi che “il femminile” (lo chiamo così, pensandolo come un luogo accessibile anche agli uomini, volendo) possa portare in maniera più potente negli ambienti dove è lasciato libero di agire e manifestarsi.

Trovo che “il femminile” sia pragmaticamente incline alle relazioni, alla tessitura delle reti e della squadra, e meno attento alla gerarchia e/o alla competizione fini a se stesse.

Trovo che il femminile non abbia timore di liberare la propria passione per dare forza alle battaglie scelte che, proprio per questo motivo, diventano viscerali e vissute con radicalità e instancabile generosità, senza troppi calcoli e retropensieri.

Trovo che il femminile sia propenso (o ancestralmente abituato) ad avere una visione sistemica, ad allargare lo sguardo per comprendere la complessità delle cose, i diversi punti di vista, senza lasciarsi ipnotizzare da singoli aspetti, senza lasciare pezzi o persone indietro.

Trovo che il femminile porti con sé un radicale senso di responsabilità (croce e delizia!), che si traduce in determinazione, affidabilità e necessità di un continuo esercizio per tenere la mente vigile su piani paralleli e schemi multi-dimensionali.

Per questi motivi sono convinta che liberare spazio per il femminile consentirebbe di smorzare questo insensato amore per gli scontri e per lo schieramento di tifoserie contrapposte, possibilmente armate, questa ricerca ossessiva dell’uomo solo al comando, cui delegare le scelte e garantire appoggio incondizionato.

Sono convinta che il femminile, specie in questi giorni spaventosi in cui potenti irresponsabili soffiano sul fuoco della paura e dell’egoismo (facendo a gara a chi ha i confini più stretti ed esclusivi e lo sguardo e la memoria più corti), possa aiutare molti a gettare il cuore oltre la rabbia e dedicarsi con coraggio a recuperare tutto il terreno perduto, spingendosi ancora un poco più in là, dove ancora non è arrivato nessuno.

*Green Italia

Vedi il sommario di questo numero

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