N 1 /2016 CONFLITTI TRA DONNE LEGGI UN ARTICOLO

 

IMG-20160120-WA0001-2Le decisioni delle donne

di Ricciocorno schiattoso

Recentemente ho condiviso un articolo su facebook dal titolo “Istat: Una donna italiana su due costretta a rinunce sul lavoro per la famiglia”; secondo i dati Istat relativi al 2011 il 44,1% della popolazione femminile tra 18 e 74 anni (poco meno di 10 milioni di donne)a causa di impegni e responsabilità familiari, per una gravidanza o semplicemente perché i propri familiari così volevano” ha detto no a un impiego o lo ha dovuto lasciare, è stata costretta a rifiutare “un incarico lavorativo” o, ancora, ha preso “congedi con retribuzione parziale, ridotto le ore di lavoro o accettato incarichi di minore importanza“; sempre secondo i dati Istat, “la stessa esperienza è vissuta da un ammontare di uomini pari a meno della metà (poco più di 4 milioni, 19,9% della popolazione maschile della stessa fascia d’età)“.[1]

“Prendere in considerazione l’idea che non tutte lo vivono come un obbligo imposto dall’alto non sarebbe meglio?”, ha commentato una lettrice a proposito della scelta di abbandonare il lavoro, rinunciare un incarico o ridurre le ore di lavoro.

Quello che intendeva è che siccome le donne scelgono autonomamente di rimanere a casa per prendesi cura dei loro cari, il fatto che sia una loro scelta pone fine alla riflessione sulla sproporzione fra le scelte degli uomini e le scelte delle donne in merito a lavoro e famiglia.

Il “choice feminism” si concentra sul singolo individuo sostenendo che obiettivo primario del femminismo è garantire il diritto delle donne a fare in piena autonomia le scelte giuste per la propria vita; ma le scelte di nessuno avvengono al di fuori di un contesto e, prima dell’avvento del “femminismo della scelta”, ci si è interrogate per anni sul modo in cui il contesto influenza le scelte individuali.

Perché il 44% delle donne sceglie di sacrificare il lavoro alla famiglia, ma la medesima scelta la fa solo il 19,9% degli uomini che si trovano nella medesima situazione? Dipende da una innata (e quindi biologica) propensione della donna all’accudimento? Oppure sussistono dei fattori ambientali in grado di pilotare le scelte degli individui? Gli stereotipi di genere hanno o non hanno un ruolo nel generare un fenomeno tanto massiccio come l’abbandono del lavoro delle donne?

Quando, in Senato, la Presidente della Camera Boldrini, nel corso del convegno Donne e media, nel quale si discuteva degli stereotipi proposti dalle pubblicità, disse «Basta spot con la mamma che serve la famiglia a tavola»[2], ci furono donne che reagirono indignate; ricordo in particolare un articolo che tuonava «sono una mamma che serve la famiglia a tavola e ne va fiera», motivando così la sua rabbiosa reazione: «Ha presente il piacere che può provare una madre – mi perdoni se mi permetto di utilizzare un termine così obsoleto – dopo una giornata di duro lavoro a preparare una cena per suo marito e i loro figli, servirli a tavola e trascorrere con loro probabilmente l’unico momento della giornata davvero in famiglia?»[3]

La frase è stata interpretata come lesiva del diritto delle donne a scegliere liberamente e in piena autonomia il loro destino, una frase pronunciata con lo scopo di sminuire e umiliare tutte quelle donne che nel pieno delle loro facoltà mentali decidono di accudire i propri familiari preparando e servendo i pasti.

Quello che le donne offese e il “choice femminism” non si chiede è come mai un uomo, dopo una giornata di duro lavoro, non desideri provare il medesimo piacere di servire a tavola.

Nel convegno, in ogni caso, si parlava della rappresentazione che i media danno della donna, non delle scelte delle donne.

La donna degli spot pubblicitari è prevalentemente relegata in una posizione di servizio, intesa proprio come donna di servizio: quella che fa la spesa, cucina, lava, stira, porta in tavola, accudisce uomini e bambini malati; questo quando non è oggetto del desiderio maschile. Raramente si incontrano spot nei quali il marito/padre si strugge nel dilemma di cosa preparare di nuovo e originale per cena. L’accusa rivolta ai media nel corso del convegno era di non proporre quasi mai donne impegnate altre attività: donne scienziate, letterate, donne che svolgono lavori pesanti o impegnate nel mondo della finanza, della tecnologia ecc., favorendo in questo modo il perpetuarsi di una serie di stereotipi che assegnano arbitrariamente alle persone specifici ruoli di genere: il maschio è colui “che porta i soldi a casa”, la donna è quella che si occupa dei lavori domestici.

Una ricerca sociologica sulla percezione dei genitori single (Negative Perceptions of Never-Married Custodial Single Mothers and Fathers: Applications of a Gender Analysis for Family Therapists, di Amanda R. Haire & Christi R. McGeorge[4]) condotta negli Stati Uniti nel 2012, ha dimostrato che le mancanze attribuite al genitore single sembrano dipendere non tanto dal suo status di persona sola, quanto dai più comuni stereotipi di genere.

La maggior parte degli intervistati, infatti, rimprovera ai padri single di non di non riuscire a fornire un ambiente familiare sufficientemente buono ai loro figli a causa della mancanza di competenze domestiche, tra le quali vengono spesso citate il preparare i pasti o il rammendare un vestito, mentre alla madre single viene rimproverato che non può ricoprire il ruolo maschile / di una figura paterna per i suoi figli.

Se le competenze tipicamente femminili sono nominate chiaramente (pulire, cucinare, rammendare…), non è chiaro in cosa consista il “ruolo maschile”. Ci dicono i ricercatori:

Le madri single vengono descritte come persone in grado di eseguire compiti ben precisi, come cucinare, rammendare i vestiti, pulire. Le descrizioni del ruolo di madre sono specifiche e chiaramente definite, mentre il ruolo del padre single è ambiguo, come se in realtà non sapessimo cosa fanno i padri, sappiamo solo che è importante.

In altri termini, potremmo dire che alle madri viene rimproverato semplicemente di non essere maschi.

Nell’era dei programmi di cucina, mentre sui nostri schermi televisivi imperversano a tutte le ore chef stellati e boss delle torte prevalentemente di sesso maschile, è difficile sostenere che vi sia un qualche fattore biologico alla radice della tanto diffusa percezione del maschio come inabile a mettere insieme un pranzo e una cena; è un fatto che gli uomini sono in grado cucinare e alcuni lo fanno anche molto bene.

Eppure, se osserviamo i dati forniti dall’Istat, che ha pubblicato nel 2010 la terza edizione dell’Indagine multiscopo sull’Uso del tempo, intervistando un campione di 18.250 famiglie e 40.944 individui, che hanno descritto in un diario le attività quotidiane scopriamo che nel 2008-2009 il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è risultato quasi interamente a carico delle donne, valore di poco più basso di quello registrato nel 2002-2003 (77,6%); nelle famiglie in cui la donna non lavora, il lavoro familiare svolto dalla donna è l’83,2%; nelle famiglie in cui la donna lavora, è il 71,4%; inoltre, la presenza di figli nella coppia non abbassa il valore dell’indice di asimmetria, ma lo innalza: quando ci sono dei figli aumenta quindi il carico di lavoro di cura della donna, mentre diminuisce il contributo fornito dall’uomo.

Le donne che lavorano scelgono “liberamente” di farsi carico della stragrande maggioranza del lavoro domestico? L’immagine della donna fornita dai media – dedita a smacchiare macchie impossibili e combattere i batteri che si annidano in ogni dove – è solo lo specchio fedele di una realtà frutto di libere scelte individuali, o contribuisce a mantenere ampio quell’indice di asimmetria fra i generi nutrendo l’immaginario delle persone? E’ lecito sospettare che lo stereotipo dell’uomo incapace di attendere alle più elementari incombenze domestiche sia funzionale a liberarlo dall’obbligo di contribuire materialmente al lavoro di cura all’interno della famiglia?

Quando Samantha Cristoforetti, nel 2014, prese parte alla missione che l’ha portata, prima donna italiana, sulla Stazione Spaziale Internazionale, molti commenti sui social network erano intrisi di malcelato disprezzo: «ma guardate che lassù c’è bisogno di qualcuno che lavi, stiri, prepari il pranzo e lavi poi pentole e piatti… per gli uomini!», scriveva un utente su facebook, «Ma non è una donna, sembra un uomo!», scriveva un altro, mentre il giornalista Camillo Langone su il Foglio, in nell’articolo Samantha non è un esempio da seguire, scriveva: «portare ad esempio un’astronauta, ossia una donna che per lungo tempo vive lontana anzi lontanissima dal proprio uomo, è utile nel momento in cui sappiamo che la causa principale del presente declino economico è il declino demografico?»

Noi scegliamo di fare quello che ci gratifica. Per quanto possa essere gratificante seguire i propri desideri, non è facile sopportare il peso di scelte che si oppongono alle aspettative della società. In un mondo che si aspetta dalle donne che lavino, stirino e preparino il pranzo per gli uomini e che reagisce con sgomento e disgusto di fronte a donne che vogliono occupare in altro modo il loro tempo, qual è il prezzo che deve pagare una donna che sceglie di nuotare ostinatamente controcorrente?

Le donne che lo hanno fatto raccontano quanto sia estenuante; sul New York Times ho trovato l’articolo di Eileen Pollack Why Are There Still So Few Women in Science?[5] che riporta molte testimonianze di donne che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze degli stereotipi di genere nel mondo della scienza:

Ho frequentato una scuola pubblica rurale nella quale non mi è stato permesso di accedere ai corsi di fisica e calcolo accelerato perché “le ragazze non scelgono mai scienze e matematica.” Arrabbiata e annoiata, ho cominciato a leggere sullo spazio e il tempo e ad imparare da sola dai libri. Quando sono arrivata a Yale, ero tristemente impreparata… Unica donna nella stanza, ero combattuta fra il sollevare la mano e espormi al ridicolo, o perdere parte della lezione e rimanere indietro. Alla fine mi sono laureata summa cum laude, Phi Beta Kappa, con il massimo dei voti, dopo aver primeggiato in meccanica quantistica e nel corso di laurea in fisica gravitazionale, il tutto mentre insegnavo a me stessa a programmare il computer mainframe di Yale. Ma non ho scelto la fisica come carriera. Al termine di quei quattro anni, ero esausta a causa di tutte quelle ore di solitudine trascorse a recuperare il divario con i miei compagni di classe, nascondendo le mie insicurezze, lottando per risolvere i problemi mentre i ragazzi lavoravano in team per terminare i loro. Ero stanca di vestire in un modo per essere presa sul serio come scienziata mentre dovevo vestirmi in un altro per sentirmi femminile… Ma soprattutto, non ho scelto la fisica perché nessuno dei miei docenti mi ha mai incoraggiata a farlo.

Possiamo dire che la scelta di questa donna sia stata una “libera scelta”? Certo, è libera nel senso che nessuno l’ha fisicamente obbligata o costretta per mezzo di minacce ad abbandonare il sogno di dedicarsi alla fisica, ma non possiamo neanche negare che, in un contesto diverso, molto probabilmente la sua scelta sarebbe stata un’altra.

Ecco perché fermarsi al punto in cui la scelta di una donna può dirsi “libera” o “autonoma” non è sufficiente. Ecco perché il cosiddetto “choice feminism” può fare ben poco per liberare la donna che vive in un contesto ancora patriarcale, il quale, molto più spesso di quanto siamo disposte ad ammettere con noi stesse, ha un peso determinante nel momento in cui siamo chiamate a fare delle scelte.

 

[1]   http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2015/12/23/istat-una-donna-italiana-su-due-costretta-a-rinunce-sul-lavoro-per-la-famiglia_1673e267-866c-4474-829c-5911ac378634.html

[2]   http://video.repubblica.it/politica/boldrini–basta-spot-con-la-mamma-che-serve-la-famiglia-a-tavola/140871/139408

[3]   http://www.qelsi.it/2013/cara-boldrini-sono-una-mamma-che-serve-la-famiglia-a-tavola-e-ne-va-fiera/

[4]   Negative Perceptions of Never-Married Custodial Single Mothers and Fathers: Applications of a Gender Analysis for Family Therapists, Journal of Feminist Family Therapy, 24 (2012), 1, p. 24-51

[5]   http://www.nytimes.com/2013/10/06/magazine/why-are-there-still-so-few-women-in-science.html?pagewanted=all&_r=1

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